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Per gli innamorati del nucleare

Sono otto i siti che producono o stoccano rifiuti radioattivi. E otto sono gli anni in cui l’Italia si contorce intorno all’idea di realizzare un solo deposito di scorie nucleari. Quel famoso “sito unico nazionale” che già scaldò gli animi di lucani e sardi i quali, qualche anno fa, si videro additati come gli estremi destinatari dei rifiuti radioattivi dell’intera Penisola. Un progetto nascosto nei cassetti ministeriali, perso nel calderone dei desiderata ambiziosi (e forse utili) ma politicamente pericolosi. Archiviato senza appello? Il dubbio è d’obbligo perché a Saluggia, il piccolo centro piemontese dove si trova l’impianto di riprocessamento Eurex (Enriched Uranium Extraction) oggi dismesso, a cui era destinato il combustibile nucleare utilizzato nelle altre centrali per ricavarne materiali utili, è in fase di realizzazione un complesso chiamato Cemex. L’obiettivo è appunto quello di “cementare” il sito per mettere in sicurezza il materiale radioattivo già stoccato lì dentro. Scrive La Stampa che due depositi (D2, già finito, e D3, in fase di realizzazione da Sogin, società statale incaricata dello smantellamento delle vecchie centrali) conterranno i materiali pericolosi che allo stato attuale costituiscono ben il 73% di quelli prodotti in Italia, ieri e oggi. Non solo: si tratta del 96% dell’intera radioattività, proveniente da rifiuti e da altri materiali.

Bratti: via da Saluggia i rifiuti radioattivi

“Questi nuovi lavori aumentano sicuramente la sicurezza dell’impianto – assicura a tiscali.it Alessandro Bratti, presidente della Commissione bicamerale d’inchiesta sulle Eecomafie – ma è certo che da lì i rifiuti radioattivi devono andare via”. Il dubbio che si stia intervenendo mettendo in sicurezza un sito “temporaneo” che sa di “permanente” arriva da più parti. Ma, sottolinea Bratti, gli interventi per la messa in sicurezza del sito vanno fatti. E precisa: “L’attività di controllo, verifica e sicurezza viene fatta costantemente. Arpa Piemonte e Ispra hanno svolto costantemente il loro lavoro. Ma è vero che all’origine non ci sono le condizioni migliori per poter ospitare degli impianti o depositi, si pensi alla vicinanza con l’acqua”, dice. L’Eurex si trova infatti nella golena della Dora Baltea e nella vicinanza di altri due fiumi.

La Commissione ecomafie, durante il suo ultimo monitoraggio, ha individuato nel triangolo piemontese (a Saluggia oltre all’Eurex ci sono il deposito Avogadro e l’impianto Sorin, a Trino la centrale Fermi e più verso Est l’impianto di Bosco Marengo) la zona con la “maggiore concentrazione” di rifiuti radioattivi, i due terzi del totale, oltre alla “maggiore presenza di ‘vecchi’ impianti” e la “parte più forte di combustibile irraggiato”, senza dimenticare la presenza più alta di rifiuti liquidi ad alta attività“. Una potenziale bomba ecologica insomma.

I pericoli da inquinamento radioattivo

Il sito di Saluggia infatti a ondate torna in auge per via dell’allarme inquinamento dei terreni tutto intorno e delle falde acquifere “superficiali”. A destare più preoccupazione sono i 260 metri cubi di liquami, fusti che contengono il materiale radioattivo nella sua forma più pericolosa. Lo scorso gennaio, la Commissione parlamentare d’inchiesta aveva reso noto che, secondo quanto rilevato dall’Arpa regionale, c’era stata una fuoriuscita di liquami a valle dell’Eurex. Il rischio di contaminare le acque potabili è concreto. In quel caso le falde superficiali avevano subito solo una “minima contaminazione”. Ma, aveva detto il Nobel Carlo Rubbia, con l’alluvione del 2000 si sfiorò “la catastrofe planetaria”. E questo tipo di eventi climatici ormai è la norma.

Non solo Saluggia

“Ma non c’è solo Saluggia – dice il parlamentare – si pensi all’impianto Ipu/Opec di Casaccia, situazione diversa e più a rischio perché gli impianti con il materiale nucleare sono impianti vecchi, magazzini costruiti con caratteristiche diverse rispetto a quelle che verrebbero chieste oggi per i nuovi depositi”. Il discorso lo si potrebbe facilmente estendere a tutte le centrali dismesse dopo il referendum del 1987 – Trino, Caorso, Latina e Sessa Aurunca – e ai siti che oggi sono adibiti a depositi di rifiuti.

Una situazione confusa, affrontata fino a oggi in maniera frammentaria e con grande dispendio di denaro pubblico. Il “sito unico nazionale” appariva come una soluzione obbligata fin dal 1999. Quali siano gli ostacoli alla sua realizzazione non è materia della Commissione d’inchiesta e “andrebbe chiesto al governo – sostiene Bratti -. L’ultima volta che è venuto da noi il ministro dello Sviluppo economico Calenda a dire che tutto era rimandato al 2017”. Circostanza quanto meno curiosa, visto che la fine dei lavori di messa in sicurezza del sito di Saluggia sono previsti per il 2019. Quel che appare certo è che la carta geologica che esclude le zone non adatte e che individua le aree potenziali per la realizzazione di un deposito non è mai stata resa pubblica. Qualche anno fa una fuga di notizie che indicava Scanzano Ionico come il luogo predestinato suscitò furiose proteste.

Il deposito unico nazionale: più sicuro e meno costoso

“C’è una ritrosia di fondo nel voler affrontare il problema pensando che ci sia una sorta di sollevazione popolare nel momento in cui si individuano le aree adatte – dice il presidente della commissione sulle ecomafie -. Ma se andasse a vedere come sono fatti questi depositi della bassa e media radioattività le remore sparirebbero”. Un esempio ci giunge dalla vicina Spagna, dove il sito di El Cabril funziona perfettamente ed è poco impattante. E’ una situazione che si può gestire benissimo senza troppi problemi”, assicura. Oltre la “ritrosia culturale” quindi c’è il discorso della sicurezza dei territori. “Più si ritarda e più situazioni precarie peggiorano”.

Costi di gestione in crescita costante

Poi c’è il discorso dei costi: la dismissione del nucleare è costato fino al 2011 6,7 miliardi di euro, con una crescita del 23% sul 2008. Buona parte di queste spese, che comprendono lo smaltimento e la messa in sicurezza sono pagate dai cittadini attraverso la bolletta della luce, che costa complessivamente 662 milioni di euro nel 2015. Il deposito unico nazionale costerebbe meno? “Molto meno di quanto spendiamo oggi”, assicura Bratti.