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Da Il Giornale.it e Il Sole 24 Ore.it

Ue, la pazza idea di Berlusconi e la sfida di Renzi: sforare il 3% e tagliare 50 miliardi di tasse

 

 

Il Fiscal Compact è un trattato discusso. E in questo momento di difficioltà è bene ricordare a chi ci governa e a noi stessi che esiste. È stato sottoscritto. Le regole sono note. Prevedono che il rapporto debito/Pil si riduca ogni anno di almeno 1/20 dello scostamento rispetto al 60 per cento del Pil calcolato sulla media dei tre anni precedenti. La cifra, che a partire dalla fine del 2015, l’Italia si troverà a togliere dalla spesa (alias tagliare) è anch’essa discussa. Si è parlato di 50 miliardi con picchi di 75. Di certo, la realtà dei conti economici del nostro Paese, decisamente inferiore alle stime allegre, ci induce a pensare che il Fiscal Compact sarà una tagliola drammatica. Tanto da immaginare che varrebbe – solo per questo – la pena di sforare il tetto del 3% di rapporto deficit/Pil.

Esattamente come più volte ha auspicato Silvio Berlusconi, ma anche una sfilza di economisti. A partire da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulle colonne del Corriere. Finiremmo di nuovo sotto infrazione, ma ci converrebbe per una serie di motivi. Almeno due. Fino a pochi giorni fa il deficit viaggiava sotto il 2,6%. Da ieri abbiamo la certezza che nel migliore dei casi chiuderemo l’anno al 3. Esattamente la soglia che nel primo semestre del 2013 ci aveva permesso di uscire dalla procedure di infrazione. Facendo scattare i tre anni di limbo prima dell’obbligo di rispettare il Fiscal Compact. E dell’entrata in vigore del primo “assessment”. Che in pratica sarà una eventualità devastante. Da qui all’appuntamento, il Paese non avrà certo imboccato la strada della ripresa e non sarà in grado di sopportare tagli lineari da una cinquantina di miliardi che renderebbero impossibili investimenti pubblici e consumi.

Risforare il tetto del 3% avrebbe l’effetto di farci ricadere nell’Edp (Excessive deficit procedure), ma allontanerebbe i nostri conti dalla tagliola del Fiscal Compact per tutto il tempo dello sforamento più tre anni. La nuova procedura ci rimetterebbe sotto i fari di Bruxelles. Imporrebbe una serie di raccomandazioni e di scadenze. Nel caso ulteriore e manifesta incapacità di fare riforme e intervenire sulla spesa, subiremmo sanzioni o tagli a una parte dei finanziamenti Ue. Sarebbe una scelta coraggiosa, ma logica e praticabile. «Un governo che avesse il coraggio delle proprie convinzioni, anziché rincorrere il 3% con aumenti di tasse, proporrebbe a Bruxelles una riduzione immediata della pressione fiscale di 50 miliardi», avevano scritto i due editorialisti del Corriere, «accompagnata da tagli corrispondenti, ma graduali della spesa, e riforme da attuare nell’arco di un triennio. Il deficit supererebbe per un paio d’anni il 3%, come in Francia. Torneremmo sotto la sorveglianza europea, ragione in più per garantire che tagli e riforme vengano attuati».

Sono numerose le nazioni Ue che a differenza nostra hanno ottenuto di sforare il tetto del 3%. Non solo la Francia. Anche la Spagna. E da quest’ultima potremmo mutuare eventualmente anche l’approccio agli aiuti Ue. Non sarebbe scandaloso sforare il 3% del deficit/Pil e accettare contemporaneamente aiuti internazionali per tagliare le tasse alle imprese. Con 50 miliardi, rinunceremmo per breve tempo a una fetta di sovranità politica, ma facendo scattare finalmente i tagli alla spesa pubblica ce la potremmo riprendere in poco tempo. Una volta restituito il prestito.

di Claudio Antonelli

 


 

 

Perché con un rapporto debito/Pil al 236% il Giappone spende e spande mentre l’Italia va giù a colpi di austerity?

 

Il Giappone ha il 236% del debito/Pil e un deficit/Pil al 10%. Numeri che farebbero impallidire Angela Merkel, i trattati di Maastricht, Lisbona e compagnia bella. E cosa fa il premier Shinzo Abe? Ha annunciato poche ore fa un ulteriore piano espasione della spesa pubblica con un primo intervento da 85 miliardi di euro. Insomma, del mantra europeo dell’ austerity dalle parti di Tokyo non c’è neanche l’ombra. 

Ma come mai il Giappone – che resta la terza economia del pianeta e può esibire un tasso di disoccupazione del 4,5% contro l’11% europeo – può permettersi di far galoppare la spesa pubblica pur convinvendo da tempo con parametri di indebitamento molto simili a quelli della Grecia? Non solo: lo stesso plurindebitato Giappone può permettersi di finanziare il debito pubblico americano (facendo carry trade, ovvero pagando interessi inferiori all’1% su titoli a 10 anni ai detentori dei titoli nipponici e ricevendo quasi il 2% dal Tesoro Usa) e quello europeo (il Giappone si è detto pronto ad acquistare titoli emessi dal Fondo salva-StatiEsm). Come mai?

Perché rispetto alla Grecia, o a un qualunque Paese dell’Eurozona, ha almeno due cartucce in più da giocare: la possibilità di stampare moneta della Bank of Japan e la protezione del debito pubblico da parte dei cittadini e degli investitori interni che ne detengono la quasi totalità. Della possibilità di stampare moneta e quindi del ruolo di prestatore di ultima istanza da parte della Bank of Japan (facoltà condivisa, tra le varie, con la Federal Reserve statunitense, la Bank of England e la Banca centrale svizzera) si è più volte parlato. Così come si è parlato del fatto che la Banca centrale europea non contempla questa possibilità, nonostante abbia attuato nel corso del 2012 misure ibride di intervento come lo scudo anti-spread (che agisce sul mercato secondario) o l’attivazione del fondo Esm (che può tecnicamente acquistare titoli di Stato sul mercato primario qualora un Paese chieda esplicitamente aiuto)….

di Vito Lops con un articolo di Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore – leggi su http://24o.it/aKYfH