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La Cina senza diritti vuol darci lezioni

l peso politico della Cina è cresciuto a un ritmo pari a quello del suo Pil e i diritti civili sono diventati un breve inciso dentro protocolli concentrati più o meno su un unico argomento: i soldi. Ora Pechino subordina gli investimenti in Italia alla riforma del lavoro. Ma dimentica le sue violazioni. Monti difende le sue misure: “Sono meglio le tasse rozze che diventare la Grecia”. Intanto le autorità cinesi arrestano sei blogger

di  – Il Giornale
Un tempo era l’Europa che chiedeva conto alla Cina delle riforme mancate. Quelle indispensabili per introdurre un po’ di diritti umani e civili, non quelle politiche che erano e restano una battaglia persa.

Incombeva il ricordo di piazza Tien An Men, tanto impraticabile per i governi cinesi quanto difficile da ignorare per i ministri europei in missione nella Repubblica popolare, se non volevano essere sommersi dai fischi al ritorno in patria. Poi il tutto si è affievolito. Le condizioni del gigante asiatico sono effettivamente migliorate e alcune delle richieste dei ragazzi del 1989, più libertà e più mercato, si sono in parte realizzate. Restano il Tibet (e recentissima la notizia dei commissari politici dentro i monasteri, di ieri quella di altri due monaci che si sono dati fuoco), le esecuzioni collettive, le libertà religiose negate, le persecuzioni dei cattolici.

Ma il peso politico della Cina è cresciuto a un ritmo pari a quello del suo Pil e i diritti civili sono diventati un breve inciso dentro protocolli concentrati più o meno su un unico argomento: i soldi.

È successo anche ieri, giornata cinese della missione asiatica di Mario Monti. Alla conferenza stampa il premier ha dedicato un passaggio ai diritti: «Un dialogo politico tra Paesi che si rispettano non deve avere remore ad affrontare anche temi delicati». Con il primo ministro Wen Jiabao «abbiamo parlato delle rispettive riforme politiche ed economiche e gli ho ricordato quante preoccupazioni e quante riserve ci siano in Italia e Europa sui diritti umani».

La novità almeno per noi italiani è però in quel «rispettive». Nel senso che con questa missione si è tornati a parlare in modo pressante di riforme, ma questa volta sono i cinesi che le chiedono a noi. Un paradosso che diventa nemesi storica se ci si mette il fatto che il governo di Pechino, espressione del Partito comunista, ci chiede soprattutto la riforma del lavoro. E non nella direzione che sognavano i maoisti pochi lustri fa.

Per la Cina all’Italia serve più flessibilità. Siamo sotto la lente di Pechino sull’articolo 18 e a farci l’esame è la China Investment Corporation, fondo sovrano da 200 miliardi di dollari. Lo ha spiegato lo stesso presidente del Consiglio. «Il presidente della Cic ha sottolineato che quando loro sono stati in Italia e hanno esplorato le possibilità di investimento sono stati riluttanti ad andare avanti a causa di alcuni problemi, uno dei quali è il mercato del lavoro troppo poco flessibile, cosa su cui adesso stiamo lavorando con la riforma che andrà presto in Parlamento. A partire da quell’episodio – ha aggiunto Monti – abbiamo deciso di esaminare la lista delle difficoltà che sono state riscontrate in passato dalla Cic».

Il fondo cinese sarà la cartina di tornasole per capire se le riforme attuate in Italia sono veramente in grado di attrarre investimenti. Si creerà un gruppo di lavoro misto, composto da governo italiano e China Investment Corporation, con due scopi: «Individuare possibili opportunità di investimento per la Cic in Italia» e «usare la Cic come una sorta di cassa di risonanza di queste nostre riforme, per capire se queste riforme stanno effettivamente incontrando i problemi che gli investitori hanno incontrato in passato». Per diritti civili non si è mai arrivati a tanto.

Segno che le esigenze di chi investe sono le stesse. L’ideologia non c’entra e in questa missione è rimasta relegata alla scuola del Partito comunista, tappa fissa dei politici stranieri che approdano in Cina.

Monti ha parlato con «piacere intellettuale e quasi emozione» a 600 studenti, dirigenti del partito o manager delle aziende di Stato, di crisi del capitalismo. Anche se, a sentire le richieste della Cic, il capitalismo non sembra affatto in crisi.